Luciano Carrino - Universitas Forum, Issue 1, December 2008
CONCETTI CRITICI
SVILUPPO E SOGGETTIVITÀ: TRA AUTORITARISMO E DEMOCRAZIA

Luciano Carrino*

La critica dello sviluppo

E’ ancora molto diffusa l’idea che lo sviluppo coincida con la crescita economica[1]. Ma il dibattito internazionale innescato dai vertici mondiali ONU degli ultimi vent’anni e dall’Assemblea del Millennio hanno fatto emergere un’idea diversa, secondo la quale lo sviluppo coincide con il benessere diffuso della popolazione. Questa visione è indicata nei documenti conclusivi dei vertici, che costituiscono una vera e propria piattaforma ONU per lo sviluppo futuro.

Secondo questa piattaforma, il modo stesso con cui si crea attualmente ricchezza è responsabile degli squilibri le cui conseguenze fanno sempre più paura alla gente. Infatti, il modello competitivo corrente non solo non ha potuto risolvere, ma ha addirittura aggravato problemi quali la povertà, l’esclusione, la disoccupazione, le forti tensioni sociali che sfociano in violenza e guerra, la diffusione della criminalità, il mancato rispetto dei diritti umani, il grave degrado ambientale, il cambio climatico, la distruzione delle risorse naturali, le migrazioni forzate, la crisi alimentare e il generale clima d’insicurezza e d’instabilità.

La piattaforma ONU individua anche la causa fondamentale del cattivo sviluppo attuale. Questa risiede nelle dinamiche di esclusione sociale che prevalgono in tutti i paesi e in tutti i campi[2]: l’economia, dove i meccanismi escludenti impediscono a moltissimi attori di apportare il loro contributo e di produrre ricchezza; la governabilità, dove responsabilità e poteri sono concentrati in poche mani, impedendo alla gente di essere attiva nella soluzione dei propri problemi, cosa che riduce di molto la sostenibilità delle soluzioni proposte dai vertici; l’ambiente, dove i grandi e piccoli produttori sono spinti dalla competizione selvaggia per il profitto a distruggere e contaminare la natura; i servizi sanitari educativi e sociali, dove molteplici meccanismi escludenti riducono l’accesso di quelli che più ne avrebbero bisogno e addirittura producono nuova esclusione[3]; la coesione sociale, dove le ingiustizie, le tensioni e i conflitti d’interesse provocano incrinature e disgregazione; la sicurezza, dove le spinte alla competizione per il successo di parte degenerano facilmente in violenza e criminalità.

Se si risolvesse il difetto di partecipazione che ancora lo caratterizza, lo sviluppo sarebbe molto migliore in tutti i campi: l’economia, dove si userebbero meglio le immense potenzialità creative e produttive della gente; la governabilità, dove la responsabilizzazione degli attori sociali e la collaborazione tra settore pubblico e privato renderebbe più solide le soluzioni ai problemi; l’ambiente, dove i processi partecipati favorirebbero l’uso razionale delle risorse ambientali e storiche; i servizi sanitari, educativi e sociali, dove si potrebbero moltiplicare le soluzioni ai problemi e la qualità delle azioni facendo ricorso alla solidarietà e alla partecipazione attiva delle persone; la coesione sociale e la sicurezza, dove la competizione, svolta in forme non escludenti, favorirebbe l’attenzione verso il comune interesse e la concertazione per risolvere le divergenze.

La piattaforma ONU ha cercato di indicare i grandi obiettivi del futuro. Ma rimane una profonda confusione su che cosa si debba intendere per “sviluppo”. Al punto che opposte tendenze politiche possono tranquillamente sostenere di agire per promuoverlo. La confusione riguarda anche il campo scientifico, dove non esiste una disciplina dello sviluppo. Esso, infatti, viene insegnato nelle università come parte di altre materie: economia, sociologia, scienze politiche, diritto, scienze ambientali e così via.

Una definizione di sviluppo

Coloro che ritengono la piattaforma ONU un buon passo avanti, e desiderano lavorare per il cambiamento, hanno interesse a ridurre le ambiguità che consentono un uso aggressivo, escludente e opportunista del concetto di sviluppo[4]. Perché, se fosse definito e caratterizzato in modo più rigoroso, potrebbe forse contribuire alla costruzione di nuove forme di organizzazione sociale.

Per cercare una definizione, si può partire da quella implicita nelle scienze economiche, prima che prevalesse l’ossessione per la crescita in sé. Per queste, lo sviluppo è da mettere in relazione alla crescita della capacità di massimizzare le soddisfazioni dei cittadini gestendo intelligentemente le risorse disponibili.

Ma, dopo il dibattito internazionale che ha dato luogo alla Piattaforma ONU, si può chiarire meglio la definizione ed enunciarla nel modo seguente: lo sviluppo è il processo attraverso il quale le società umane cercano di soddisfare i bisogni di benessere e sicurezza di tutti i cittadini.

Tenendo conto di questa definizione, si possono riesaminare le idee correnti sullo sviluppo, criticarle e fondare meglio le scelte per il futuro. O, quanto meno, si possono formulare tesi plausibili da sottoporre alla ricerca, come si tenta qui di seguito.

Il soggetto dello sviluppo

Per le idee correnti, il soggetto dello sviluppo è l’individuo che compete con gli altri e crea ricchezza. Ma quest’idea è fondata? L’individuo è certamente il soggetto della competizione, ma non dello sviluppo. Non può esserlo, perché non può produrre, da solo, i mezzi per soddisfare i propri numerosi bisogni materiali e culturali e tanto meno quelli di tutti gli altri. La sopravvivenza e la soddisfazione dei bisogni di benessere e sicurezza dell’individuo dipendono dall’organizzazione sociale. Dunque, il soggetto dello sviluppo è sempre la società umana.

Quando si parla di sviluppo, pertanto, si discute, innanzi tutto, non delle capacità individuali, ma delle dinamiche organizzative delle società e di come queste sono in grado di rispondere alle attese di soddisfazione e sicurezza degli individui, utilizzando le loro capacità.

Le idee correnti, invece, esaltano oltre misura il valore dell’individuo, facendo credere che lo sviluppo dipenda solo dalla sua speciale creatività e intraprendenza. Così facendo, lo definiscono implicitamente come la somma del prodotto degli individui (appunto, il prodotto interno lordo). Ma quello che ciascuno produce non sarebbe utilizzabile per il fine della soddisfazione e della sicurezza senza un’organizzazione della società che abbia questo scopo. L’individuo è, sì, il motore e l’unità di produzione elementare dello sviluppo. Ma, come in ogni fabbrica, non basta disporre di energia e non basta mettere le unità di produzione una vicina all’altra: occorre organizzarle secondo percorsi e regole ben definite. Solo allora le unità elementari possono realizzare un prodotto complesso.

In pratica, la soddisfazione di ogni bisogno individuale, anche il più elementare, comporta il funzionamento complesso della società, che è il vero soggetto collettivo dello sviluppo.

Lo sviluppo come ragione d’essere della società

Le società umane, che milioni d’anni fa non differivano molto da quelle animali, hanno sempre avuto il senso “naturale” di assicurare miglior benessere e sicurezza ai propri individui. Originariamente, sono state il frutto di comportamenti istintivi iscritti nel patrimonio genetico degli individui. Poi, negli umani, sono divenute meno istintive e più razionali man mano che si sviluppava l’apparecchio psichico, ma non hanno mai perso la loro ragione d’essere originaria.

L’antropologia e le analisi scientifiche mostrano che ciò che conta, in tutte le società, è la relazione tra individui che imparano insieme a pilotare meglio la loro organizzazione sociale in funzione della sopravvivenza e della sicurezza. Ma le idee correnti distorcono questa verità elementare, abituandoci a credere che ciò che conta nella società è l’individuo in sé, piuttosto che la relazione tra gli individui.

Un sapere rigoroso dello sviluppo deve partire dal fatto che, nei processi di sviluppo, società e individui sono strettamente interdipendenti. Lo sviluppo è il prodotto dell’organizzazione sociale, ma è sempre modificabile dagli individui che la compongono. La società è il soggetto collettivo dello sviluppo, ma gli individui possono sempre cambiarla. Non ha senso, pertanto, studiare lo sviluppo né come se fosse il prodotto della somma di tanti individui, né come se fosse il prodotto “oggettivo” di società che si ergono, irraggiungibili, di al di sopra dei loro individui. Occorre, invece, studiare le società e il loro prodotto fondamentale, lo sviluppo, come un tutto funzionante, ma tenendo conto delle dinamiche affettive e razionali degli individui e sapendo che questo “tutto”, fatto di organizzazione, regole e percorsi, dipende sempre dalle scelte etiche e politiche degli individui che ne fanno parte.

Sviluppo e patto sociale

Se lo sviluppo è la ragione d’essere delle società, queste vanno studiate in funzione del “patto sociale” che le fonda. Tale patto si può esprimere come “sviluppo in cambio di regole”. Gli individui, infatti, debbono rispettare le regole della vita sociale, spesso frustranti, ma si aspettano, in cambio, che questa assicuri loro benessere e sicurezza. Essi possono valutare in ogni momento se la loro società mantiene le proprie promesse. Se queste non sono mantenute e le aspettative di benessere e sicurezza, indotte dalla cultura della società stessa, sono regolarmente deluse, gli individui possono sentirsi imbrogliati. Se la frustrazione si estende alla maggioranza della gente, tende a venir meno la ragione d’essere della società, il patto s’incrina e si mette in moto un processo di disgregazione sociale.

Lo sviluppo è sempre sottoposto non solo al consenso razionale ma a quello affettivo dei cittadini. Il primo dipende dalle soddisfazioni e dalla sicurezza che ciascuno può realmente ottenere. Il secondo dipende dalla distanza tra attese culturalmente indotte dalla società e concrete soddisfazioni ottenute.

In pratica, una società può essere relativamente ricca e sicura, se si guarda alle sue statistiche, ma può lo stesso far inferocire una larga parte dei suoi cittadini, se li ha spinti ad aspettarsi più di quanto sia capace di offrire. E’ quello che accade nelle società e nelle culture ossessionate dalla competizione per il successo individuale che, sebbene ricche, producono un gran numero di frustrati, emarginati ed esclusi. Inoltre, la corsa individuale al successo degenera facilmente in astuzie e violenze che, a loro volta, producono sfiducia, instabilità e insicurezza. Chi ha successo effettivo diviene insaziabile, e chi non ne ha quanto crede di dover averne tende a divenire antisociale. Così la sfiducia nella società cresce anche perché tutti vivono nell’instabilità e nell’insicurezza.

Un sapere rigoroso dello sviluppo deve aiutare gli esseri umani a organizzare società che promettano quanto possono mantenere, che stimolino la speranza, le innovazioni e la creatività, ma che non trasformino i sogni in incubi.

Il ruolo fondamentale dei bisogni

Gli economisti riconoscono il valore fondamentale della soddisfazione dei bisogni delle persone, ma non si sono fermati ad approfondire cosa essi siano e che funzioni hanno. Invece, una loro migliore conoscenza può essere utile per capire non solo qual è la forza che anima lo sviluppo, ma anche come mai sia così facile ingannare la gente e spingerla a desiderare e comprare cose che non sempre sono nel suo interesse.
Ma cosa sono i bisogni? Si possono definire in modo rigoroso? La riflessione in questo campo è stata abbordata in modo insoddisfacente da sociologi, economisti o filosofi[5]. Ma se il tema si affronta dal punto di vista della biologia, della psicologia e della linguistica, si può cercare di capire meglio cosa essi siano.

I bisogni si possono definire come sentimenti che hanno la funzione di stimoli mentali. Essi sono strettamente collegati ai processi vitali o culturali dell’individuo e accompagnano la fase in cui questi processi non possono compiersi perché manca qualcosa oppure qualcosa ostacola il loro svolgimento[6]. Essi hanno la funzione di stimolare la mente perché metta in moto pensieri ed azioni che servano a procurare ciò che manca o a rimuovere gli ostacoli.

I sentimenti chiamati bisogni hanno caratteristiche di malessere, disagio, dolore o angoscia. Essi mettono in moto l’individuo che si agita alla ricerca di ciò che può liberarlo da questi stimoli penosi. Quando un’azione appropriata viene trovata, i processi vitali o culturali che finalmente si possono compiere sono accompagnati da un sentimento di benessere, soddisfazione, piacere o godimento. La ricerca dei sentimenti di benessere è il motore irrazionale e passionale che è sempre all’origine delle azioni umane. E poiché queste ultime servono sempre a procurare soddisfazioni e sicurezza, i bisogni si possono considerare il motore dello sviluppo.

Bisogni e inganni

I bisogni, per loro natura, non consentono d’identificare con chiarezza l’oggetto o l’azione che può soddisfarli. Essi sono stimoli fatti di sentimenti che spingono a cercare ciò che manca o a rimuovere ciò che ostacola. Ma i processi vitali o culturali da cui prendono origine possono sempre essere soddisfatti in modi diversi. Per esempio il bisogno generato, nel ciclo della respirazione, dalla mancanza d’ossigeno può essere soddisfatto sia con l’aria pura di montagna sia con quella inquinata della città. Ancora più varia è la soddisfazione dei bisogni di tipo culturale (per esempio nel lavoro, in famiglia, nella vita sociale ecc.).

Ogni bisogno, anche il più semplice e vitale, può sempre essere soddisfatto con oggetti e azioni che, insieme con ciò che procura soddisfazione, contiene anche altre componenti che non sono necessariamente nell’interesse dell’individuo o che sono addirittura nocive. La mente, quando valuta il risultato della sua azione, riconosce subito la soddisfazione ottenuta. Solo più tardi, se e quando interviene la razionalità critica, riconosce i danni eventuali che i mezzi usati per ottenere quella soddisfazione hanno comportato. I sentimenti di piacere provati sono più immediati e forti del pensiero razionale.

Le élite al potere conoscono da tempo questi fenomeni ed hanno imparato magistralmente a veicolare i propri interessi attraverso oggetti o azioni desiderabili, che comunque procurano un certo grado di soddisfazione alla gente. In tal modo, una gran parte della popolazione è orientata a cercare la soddisfazione attraverso percorsi che consolidano vantaggi e valori delle élite[7].

Ignorare i bisogni significa non tenere conto della motivazione che spinge gli umani ad unirsi per stare meglio, ma anche non capire come il ciclo bisogni/soddisfazioni possa essere facilmente usato a profitto delle élite al potere. E’ nella natura dei bisogni e dei loro sentimenti pressanti predisporre gli umani ad essere ingannati. Perciò conoscerli è fondamentale ma non è sufficiente.

La razionalità e lo sviluppo

E’ vero che lo sviluppo è stimolato dalla dimensione affettiva della mente ma esso è prodotto dalla sua dimensione razionale.

Per soddisfare i bisogni, gli esseri umani debbono innanzi tutto trasformarli in desideri[8]. Questi sono sempre marcati da sentimenti ottimistici e positivi, ma si accompagnano con un lavoro mentale per circoscrivere il campo ed avviare la ricerca della soddisfazione. I desideri, a loro volta, non bastano a raggiungere lo scopo, perché talmente carichi d’ingenui sentimenti positivi da esporre l’individuo a forti frustrazioni e pericoli. Così, la mente, spinta dai desideri, passa alla fase operativa, quella più razionale scegliendo, tra ciò che si trova nell’ambiente e nella società, quello che realisticamente può procurare la soddisfazione.

In questo percorso, la mente parte dagli affetti dell’individuo e apprende ad essere razionale, cioè a usare il pensiero, il linguaggio e la comunicazione per massimizzare il benessere individuale e per gestire intelligentemente le risorse disponibili o addirittura per creare nuove risorse.

La razionalità è la parte più recente della mente. Gli esseri umani l’hanno dovuta costruire nel corso dell’evoluzione della propria specie, perché fin quando si sono fatti dominare dalle passioni e dagli istinti più predatori ed esigenti, sono stati esposti gravemente agli innumerevoli pericoli che esistono sia nell’ambiente che nella vita sociale. Così, la mente umana ha dovuto imparare a usare la sua speciale capacità di rappresentare la realtà, di pensarla e immaginarla[9]. In tal modo ha imparato a progettare le proprie azioni, ammaestrato dall’apprendimento.

La razionalità umana è, innanzi tutto, la capacità di usare il pensiero per fare progetti che sacrificano le soddisfazioni che sembrano facili e a portata di mano (ma che comportano rischi distruttivi o frustrazioni nascoste), a profitto di soddisfazioni più mediate, ma più sicure. La psicologia chiama Io o Sé la funzione mentale che serve a gestire gli impulsi irrazionali provocati dai bisogni e a orientare il comportamento in modo da ottenere la soddisfazione proteggendo l’individuo. Gli strumenti principali per fare questo sono il pensiero e il linguaggio, che ogni individuo costruisce con gli ingredienti che gli mette a disposizione la cultura della società dove vive.

La razionalità è la parte intelligente e protettiva della mente, ma non bisogna mai dimenticare che essa serve a raggiungere la soddisfazione. Non ha senso una razionalità in sé. Essa ha la sua ragione d’essere nel procurare sentimenti di benessere. Il pensiero scientifico corrente, invece, dimentica volentieri questa verità e tende ad autonomizzare la razionalità dagli affetti. Ma, così facendo, perde il suo fondamento. La razionalità della scienza è “fredda” (cioè pretende di essere obiettiva) quando perde il calore dei desideri umani che l’alimentano naturalmente, e si dota, al loro posto, di una motivazione artificiale (la conoscenza in sé).

Le scienze economiche, del resto, hanno riconosciuto chiaramente il legame tra razionalità e soddisfazione quando hanno definito il loro oggetto come la gestione intelligente delle risorse per massimizzare il benessere.

In ogni caso, è la dimensione razionale della mente che guida sia il comportamento dei singoli sia l’organizzazione delle società, che servono appunto a rispondere meglio e in modo più sicuro ai bisogni e alla loro inarrestabile spinta affettiva.

Si può dire che esiste una “razionalità economica”? Il dibattito in seno alle scienze economiche è stato fin qui inconcludente[10]. Ma se si adotta un approccio interdisciplinare, si può considerare la razionalità economica come un caso particolare della più generale razionalità umana. La prima mette l’accento sull’intelligenza della gestione delle risorse, ma il suo scopo è lo stesso della seconda. Si può affermare, allora, che un sistema socio-economico è razionale se serve, coerentemente ed efficacemente, al suo scopo naturale, che è quello di migliorare il benessere e la sicurezza di tutti i suoi cittadini.

I sistemi escludenti sono dunque irrazionali, come affermato dalla piattaforma ONU, perché procurano benessere ad alcuni e mettono in difficoltà molti altri, e lo fanno mettendo in pericolo la convivenza e danneggiando l’ambiente di vita. Essi vanno corretti attraverso l’attivazione razionale di tutti i cittadini nei processi di sviluppo.

Sviluppo e soggettività

L’economia e la nascente disciplina dello sviluppo non possono eliminare dal proprio campo di riflessione la soggettività. Ma l’economia ha avuto grandi difficoltà ad integrarla in forme di pensiero rigoroso[11]. Tuttavia, il moderno approccio interdisciplinare allo sviluppo, stimolato dal dibattito internazionale, può forse aiutare a dipanare questa matassa.

Sia gli esseri viventi che le loro società funzionano sulla base della dinamica bisogni/soddisfazione, cioè dei due fenomeni affettivi fondamentali che accompagnano gli scambi continui che caratterizzano tutti i processi vitali.

Questa dinamica è comune agli animali e agli umani. La loro mente dispone di un centro di comando, costruito sotto la guida del patrimonio genetico e dell’apprendimento. Gli ingredienti con cui si struttura questo pilota psichico sono le tracce mentali delle sensazioni e delle percezioni, organizzate in “rappresentazioni”. Mentre le sensazioni e le percezioni lasciano tracce che dipendono strettamente dagli stimoli che le attivano, le rappresentazioni sono un prodotto mentale di secondo livello, relativamente autonomo. Esse sono il frutto di un lavoro associativo complesso del sistema nervoso.

Anche gli animali hanno rappresentazioni. Per esempio, i cani dispongono di un sistema nervoso in grado di produrle. Infatti, possono mettersi a salivare sentendo il suono di una campanella, se sono stati abituati ad attribuirgli la funzione di “rappresentare” una scodella di cibo. Con le rappresentazioni la mente può lavorare anche in assenza degli stimoli. E, collegandole tra loro, può costruire, negli umani, il pensiero, il linguaggio e la scrittura.

Negli animali, le capacità di collegamento tra i neuroni del sistema nervoso sono relativamente poche e il loro “pensiero” si limita a poche elaborazioni. Negli umani, invece, le capacità di collegamento tra neuroni sono enormi[12], e il pensiero può effettuare elaborazioni complesse e usare le attività simboliche per influenzare e cambiare la realtà.

Il centro di comando psichico, negli umani viene chiamato Sé o Io. Il Sé è la funzione mentale che dirige le azioni che servono a procurare la soddisfazione dei bisogni, con la maggiore sicurezza possibile e la minore fatica.

Il Sé è la sede dell’identità individuale, cioè del particolare modo in cui l’apparecchio psichico si organizza, incamerando esperienze e producendo schemi di risposta originali alle diverse situazioni, sempre usando il pensiero, il linguaggio e la comunicazione, e sempre perseguendo intelligentemente la soddisfazione. Esso è dunque la sede di ciò che si chiama “soggettività”, la struttura psichica del tutto specifica e irripetibile che ciascun individuo umano costruisce nella propria infanzia, a partire dai bisogni, dagli affetti e dagli ingredienti che gli mette a disposizione la società per organizzare la propria razionalità. La specificità della struttura psichica di ciascuno si chiama anche “carattere” o “personalità”, quando si vogliono mettere in evidenza gli schemi di pensiero e comportamento cui fa ricorso abitualmente quel particolare Sé.

Chi studia lo sviluppo, può notare una corrispondenza tra la nascita e l’evoluzione delle società complesse e la storia del Sé. Quest’ultimo, si può studiare anche nei bambini che, nel lungo processo di costruzione della loro identità personale riproducono le tappe essenziali di quanto è accaduto alla specie. Il Sé ha, nell’individuo, la stessa funzione fondamentale che l’organizzazione sociale ha nei sodalizi umani. Entrambi servono ad assicurare la soddisfazione dei bisogni con mezzi che proteggono dai pericoli ambientali di ogni genere. Solo che il Sé lavora per l’individuo e la società per tutti.

Il Sé, quando funziona bene, produce soddisfazioni e sicurezza per la persona, mentre la società, quando rispetta il suo mandato naturale, produce sviluppo per tutti i suoi cittadini. Ma il Sé non può compiere la sua funzione senza la società, mentre questa non può funzionare ed evolvere senza i Sé dei propri cittadini.

Il Sé di ogni individuo non è innato, ma si costruisce e funziona usando gli ingredienti forniti dall’ambiente e dalla cultura della società in cui si vive. A sua volta, l’organizzazione sociale si costruisce ed evolve con l’apporto dei Sé, cioè del pensiero, del linguaggio, dei valori e delle altre attività simboliche degli individui che la compongono.

La soggettività, dunque, è il prodotto del tutto originale e irripetibile del processo attraverso il quale il bambino costruisce il proprio Sé e la propria personalità. Ma è un prodotto dell’interazione tra corpo, mente, natura e società. Dunque può sempre essere studiata e compresa esaminando le forze (la dinamica della soddisfazione dei bisogni biologici e culturali o immateriali) e gli ingredienti di cui è fatta (essenzialmente le condizioni ambientali e culturali e le tracce delle esperienze della persona).

La società, a sua volta, è il prodotto stratificato delle diverse soggettività che si succedono nel tempo, lasciando ogni volta le loro tracce nel lavoro organizzativo della vita sociale. Anche le società hanno una propria identità irripetibile e evolutiva che chiamiamo “cultura”.

Quando si studia l’evoluzione delle società umane, non si può fare a meno di notare che le società elitarie, nate circa undicimila anni fa, hanno rotto l’antico equilibrio basato sull’interdipendenza e la convergenza naturale d’interessi tra individui e società. Sono riuscite a opporre alcuni Sé agli altri. Lo hanno fatto, inducendo gli individui che avevano responsabilità importanti per il bene di tutti ad approfittare della loro posizione per esercitare in seno alla società (divenuta nel frattempo complessa e composta da molti gruppi), gli schemi di comportamento predatore prima riservati all’azione esterna alle società.

In tal modo, chi aveva responsabilità importanti (per esempio, amministratori, guerrieri e sacerdoti) imparò ad accumulare privilegi e potere per assicurarsi soddisfazioni e sicurezza a scapito degli altri cittadini. Le società si frantumarono in gruppi, di cui alcuni molto potenti e altri che non contavano quasi nulla. Da allora, la sorte dei Sé e quella delle società è apparsa come separata, quando è in realtà strettamente interdipendente. Da allora, il bene delle società è stato fatto coincidere con quello delle loro élite, quando è in realtà legato indissolubilmente a quello di tutti i suoi membri e alla loro capacità di convivere tra loro e con la natura.

La crisi attuale dello sviluppo sembra mostrare questo: concentrare potere e ricchezza in poche mani, rompendo un equilibrio sensato e razionale, conduce a gravi crisi distruttive.

Queste brevi considerazioni, che necessitano di molti approfondimenti, servono qui a far notare che il pensiero scientifico corrente, ignorando l’interdipendenza strutturale tra i Sé e le organizzazioni sociali, si basa su un’idea erronea di soggettività. Come se questa potesse esistere autonomamente, senza i processi vitali e senza l’evoluzione delle società umane. Così la soggettività, che è prodotta da processi complessi, diviene un assunto inspiegabile, originario, analogo ad altri assunti e valori assoluti che da sempre caratterizzano le ideologie elitarie.

Dopo la rivoluzione francese, la vecchia soggettività è stata collegata ai nuovi concetti di libertà e di diritti individuali, in un contesto che esaltava l’intraprendenza dell’imprenditore, vero eroe del progresso senza limiti, e provava insofferenza per le regole del vivere sociale, sentite come lacci alla libera creatività.

Ma la crisi attuale dello sviluppo obbliga a ripensare alla soggettività e alla sua relazione con l’organizzazione sociale. Se gli argomenti prima enunciati hanno una qualche validità, allora il cambiamento va nella direzione di riconoscere l’interdipendenza e ricercare nuove forme di organizzazione sociale che recuperino l’antica e naturale convergenza d’interessi tra individui e società. E di queste con le dinamiche ambientali.

In questo processo, gli individui dovrebbero imparare a sviluppare la dimensione sociale e collaborativa della loro identità, riconoscendo i limiti e i danni provocati dall’eccesso di avidità e competizione. L’organizzazione sociale, a sua volta, dovrebbe essere guidata da una razionalità che non fa entrare gli interessi dell’individuo in antitesi con quelli della collettività.

Strumenti per lo sviluppo democratico

Nell’epoca della globalizzazione gli esseri umani vivono, tendenzialmente, in una società-mondo. Le élite attuali sono frantumate tra quelle che già hanno poteri sovranazionali e quelle che governano gli stati. Le une e le altre, tuttavia, spingono verso un mondo globale ancor più solidamente governato dalla loro logica.

Rompendo la struttura fondamentalmente solidaristica che aveva caratterizzato i sodalizi umani più antichi[13], le culture elitarie ritorsero contro una parte della società gli strumenti del pensiero e del linguaggio, che erano stati costruiti come armi collettive di protezione e benessere. Così facendo, caratterizzarono dappertutto, anche in culture che non si conoscevano tra loro, particolari forme di sviluppo che sono giunte fino ai nostri giorni.

E’ vero che non vi sono due civiltà uguali in tutta la storia, e che ciascuna ha costruito una propria identità culturale del tutto particolare. Ma se le diverse culture elitarie si valutano dal punto di vista dello sviluppo, si scopre che esse hanno usato almeno cinque strumenti che le accomunano profondamente. Questi strumenti sono stati usati per consolidare metodi e valori escludenti della gestione elitaria delle società, impedire la partecipazione attiva della gente e disgregare il solidarismo cosciente, che avrebbe potuto seguire a quello “funzionale” originario.

Essi sono il centralismo, il verticismo, il settorialismo, il paternalismo e il burocratismo, che ancora oggi caratterizzano pesantemente la gestione autoritaria dello sviluppo.

Il centralismo è l’eccesso di concentrazione di poteri e risorse in poche mani e in sedi centralizzate. Esso va ben al di là delle normali necessità di coordinamento centrale in società complesse e serve a privare di responsabilità coloro che, essendo più vicini alla gente, potrebbero operare in modo più efficace e mirato, ma acquisirebbero autonomia rispetto alle élite centrali. Il centralismo deresponsabilizza a cascata tutte le sue vittime, rendendo così lo sviluppo poco aderente ai bisogni e poco sostenibile.

Per combatterlo, si possono promuovere politiche di deconcentrazione e decentramento democratico, cercando di trasferire tutte le volte che è possibile, poteri, responsabilità e risorse ai livelli politico-amministrativi decentrati dello stato e all’alleanza locale tra autorità e attori sociali. In questa prospettiva, diventano essenziali le comunità locali come nuovi soggetti politici dello sviluppo democratico.

Il verticismo è la trasmissione delle decisioni che riguardano la vita e lo sviluppo della gente dall’alto verso il basso. Esso non prevede che la gente, a sua volta, trasmetta al vertice le sue idee e proposte per aggiustare l’azione. In tal modo pochi politici o funzionari la privano delle informazioni e della possibilità di contare qualcosa nella soluzione dei propri problemi. Anche qui, il risultato è la deresponsabilizzazione, l’approssimazione nella programmazione e l’assenza di meccanismi d’aggiustamento degli errori.

Per combattere il verticismo, si promuove la partecipazione attiva degli attori sociali di base. Purtroppo in molti casi la vera partecipazione, che è caratterizzata dalla concreta possibilità di avere un peso nei processi di sviluppo ed influenzare l’uso delle risorse, viene sostituita con surrogati. Tra questi: le consultazioni sporadiche, la ricerca del consenso, la manipolazione ideologica ed altre forme che poco hanno a che vedere con i processi democratici. Nelle esperienze più interessanti, la partecipazione è sempre caratterizzata dall’avere qualcosa di concreto e importante da decidere assieme, dal dialogo tra istituzioni e attori sociali e dall’effetto di empowerment di chi prima contava ben poco.

Il settorialismo è la separazione rigida tra professioni e settori d’intervento che invece, per poter risolvere i problemi complessi dello sviluppo (quali ad esempio la povertà, la violenza, il degrado ambientale e così via), dovrebbero poter operare assieme, in forme coordinate e complementari. Il settorialismo esalta la competenza individuale, ritenuta giustamente importante per risolvere problemi puntuali, ma non si preoccupa dei risultati strutturali, che invece richiederebbero la collaborazione tra competenze diverse. Ancora una volta la visione individualista prevale su quella sociale. Il settorialismo provoca la frammentazione degli interventi, che rispondono ciascuno a una propria filiera separata e verticale. E la frammentazione è responsabile dello scarso impatto dei finanziamenti sui grandi problemi e della dispersione delle risorse, come messo in evidenza, nel caso dell’aiuto allo sviluppo, dalla Dichiarazione di Parigi.

Per combattere il settorialismo, si deve promuovere l’azione territoriale e integrata a livello delle comunità locali, la sola che può sperare di superare le forme di frammentazione prevalenti, come mostrano diverse interessanti esperienze del passato e in atto. La condizione è che lo sviluppo locale integrato sia collegato a livello nazionale e internazionale. In questa prospettiva, le comunità locali, rese protagoniste del proprio sviluppo, attente a valorizzare il proprio patrimonio ambientale e storico, messe in rete tra loro e capaci di far valere il loro peso politico, possono costituire un’alternativa allo sviluppo centralizzato e autoritario che provoca danni e instabilità.

Il paternalismo è la degenerazione dei sentimenti di solidarietà che uniscono gli umani. Esso spinge a compiere atti individuali, assistenziali, basati sulla buona volontà o su una filosofia associativa privata là dove, invece, dovrebbe essere promosso il diritto di ognuno ad una vita dignitosa e attiva. Il paternalismo esalta l’azione privata là dove dovrebbe essere messa in evidenza la responsabilità collettiva. Esso adotta, poi, conformemente alla matrice autoritaria su cui si basa, forme d’azione che non prevedono un ruolo attivo della persona di cui si occupa, e così diffonde prestazioni e servizi che, anche quando sono animati da sinceri buoni sentimenti, rendono passiva e dipendente la gente. Ma spesso si manifesta anche a viso aperto e allora rivela pienamente la sua origine violenta, come nei manicomi, negli orfanotrofi e nelle altre istituzioni totali.

Il paternalismo si combatte organizzando programmi e servizi in cui le persone che hanno bisogno d’aiuto possono avere fin dall’inizio un ruolo attivo, uno spazio per negoziare, proporre ed agire. Se si fa così, come mostrano moltissime esperienze, si può facilmente dimostrare che chi era ritenuto incapace e incompetente riesce, invece, a superare le difficoltà e a conquistare autonomia e spazi d’azione.

Le società elitarie, che hanno sempre prodotto emarginati, poveri e esclusi d’ogni genere, hanno introdotto progressivamente sistemi di protezione sociale che, però, si basano per lo più su approcci assistenziali e paternalisti. Esse danno per scontato che povertà ed esclusione vi saranno sempre e che queste vanno affrontate con misure speciali a parte. Ma i sistemi di protezione sociale sono in crisi dappertutto: non solo perché mancano sempre risorse, ma perché sono basati su forme d’azione pensate per gestire i “residui” improduttivi. Invece i residui tendono a diventare la maggioranza della gente e non c’è misura assistenziale che possa seriamente occuparsene.

Il welfare diviene impossibile. Al suo posto non resta che allargare a tutti la possibilità di partecipare alle attività che producono ricchezza e trovare forme di organizzazione sociale che sappiano utilizzare, in modo umano e partecipato, l’immenso patrimonio solidaristico che oggi viene deviato verso il paternalismo.

Il burocratismo è la degenerazione del fatto che ogni azione umana, per raggiungere il suo scopo, deve seguire un percorso fatto di regole. Le azioni pubbliche, poi, debbono prevedere percorsi che garantiscano anche il buon uso delle risorse. La degenerazione consiste nel perdere di vista lo scopo delle procedure, che è quello di garantire rapidità, efficienza e trasparenza, e nel mettere in primo piano il ruolo di “garante” del guardiano delle procedure, il burocrate. Allora si moltiplicano i controlli, le valutazioni, i monitoraggi e gli altri strumenti che servono più ad accrescere il potere e l’importanza del burocrate che ad ottenere lo scopo naturale e positivo della burocrazia. In fondo, questa degenerazione è una sorta di vendetta interna delle piccole élite burocratiche nei confronti delle grandi élite affaristiche. Ma, in ogni caso, le vittime sono sempre le persone che avrebbero dovuto beneficiare almeno un po’ di tale o tale altro progetto.

Il burocratismo si combatte con il cambiamento delle procedure per fare in modo che esse servano davvero a garantire rapidità, efficienza e trasparenza. Molte esperienze mostrano che questo è possibile e che si possono perfino costruire burocrati nuovi, che perdono il loro odioso carattere di ostacoli a priori e acquisiscono il piacere di essere complici del cambiamento.

Riconoscendo gli strumenti concreti usati dalle culture elitarie per promuovere uno sviluppo a loro favorevole, le persone che ne subiscono i meccanismi escludenti possono diventare attori critici. Possono costruire un proprio sapere e mirare meglio le strategie e le azioni concrete con cui nutrire la loro faticosa battaglia quotidiana per uno sviluppo umano.

In conclusione

In conclusione, la piattaforma ONU potrebbe favorire la nascita di una disciplina (o meglio di un’interdisciplina) dello sviluppo. Questa si occuperebbe di studiare il funzionamento delle società umane per aiutarle ad essere coerenti con il proprio mandato “naturale”, quello di assicurare benessere e sicurezza a tutti i propri cittadini. Nelle pagine precedenti si sono proposti spunti di riflessione, tutti da approfondire, il cui senso è far percepire la ricchezza che potrebbero avere ricerche sullo sviluppo che non dipendano dalle tradizionali discipline settoriali.

Una disciplina dello sviluppo dovrebbe aiutare i governi e gli attori sociali a identificare e selezionare obiettivi di benessere diffuso e riduzione delle conseguenze degli squilibri attuali, organicamente collegati tra loro. Dovrebbe poi aiutarli a scegliere politiche e metodi d’azione coerenti con quegli obiettivi, favorendo l’interazione tra le diverse discipline specializzate che si usano correntemente per la comprensione e l’orientamento delle società umane: scienze economiche, giuridiche, politiche, statistiche, ambientali, della salute, del welfare, dell’informazione, della formazione ed altre.

Ma, per essere utili allo sviluppo, le discipline specializzate correnti dovrebbero essere opportunamente orientate da una rinnovata e prioritaria attenzione al benessere diffuso, dal quale hanno invece preso le distanze, come se non dovessero giustificare la propria utilità sociale. Il che vuol dire compiere un grande sforzo concettuale e metodologico per depurare le scienze specializzate di oggi dalle loro prevalenti tendenze autonomiste, tecniciste e pseudo-oggettive. Tendenze che le “liberano” dalla necessità di essere verificate in base a criteri di benessere diffuso e sicurezza per le popolazioni.

L’interdisciplina dello sviluppo potrebbe proporsi di formare criticamente i quadri che operano a supporto delle pubbliche amministrazioni, quelli delle strutture che intervengono nei diversi campi e quelli che s’impegnano nei partiti politici. Quadri che oggi, invece, escono dalle facoltà di scienze politiche, economia, diritto ed altre dove il tema dello sviluppo è appena sfiorato e dove prevale spesso la visione frammentaria e tecnicista della società.

Un sapere rigoroso dello sviluppo non servirebbe certamente a far invertire la rotta a coloro che lo vogliono squilibrato e violento. Ma servirebbe a rafforzare l’azione degli attori critici, cioè coloro che sono spaventati dalle tendenze distruttive in atto, che vorrebbero agire in modo efficace per il cambiamento e mancano, spesso, di conoscenze e strumenti concettuali adeguati, oltre che di strumenti politici[14].

Oggi, questi attori si trovano in tutti i paesi e in tutti gli strati sociali e potrebbero costituire una grande forza di cambiamento. Ma essi hanno spesso valori ideologici, religiosi o culturali diversi e fanno fatica a vedere l’interesse che li unisce. Inoltre, le élite al potere fanno da sempre leva sui valori tradizionali per separare, contrapporre e gestire gli scontenti.

Se, invece, prendesse piede il riferimento ad una visione laica e rigorosa dello sviluppo, si aprirebbe uno spazio omogeneo di confronto tanto nelle realtà locali che a livello nazionale e internazionale. Tale confronto sarebbe a vantaggio degli attori critici. Si creerebbe, infatti, un terreno fondamentale sul quale, a prescindere dalle appartenenze culturali, si potrebbe dialogare e collaborare per scegliere le soluzioni innovative che, superando le forme d’esclusione attuali, apportano benessere e sicurezza a tutti. Sarebbe più facile riconoscere le azioni che vanno nell’interesse delle élite e quelle che s’iscrivono in reali processi democratici. E forse sarebbe più facile analizzare i conflitti mortali che oppongono le élite tra loro e rifiutare di schierarsi per l’una o per l’altra. Aumenterebbe, così, lo spazio per alleanze locali, nazionali ed internazionali tra tutti coloro che, riconoscendosi emarginati e messi in pericolo dai meccanismi elitari, cercano vie innovative per andare verso uno svilppo umano, pacifico, partecipato e sostenibile.


* Luciano Carrino, neuropsichiatra, è esperto di cooperazione al Ministero degli Affari Esteri italiano e 1. Rappresentante Esecutivo del Comitato Scientifico ART per la cooperazione allo sviluppo umano.

1. Quest’idea è stata sostenuta vigorosamente da Banca Mondiale, Fondo Monetario Internazionale e Ministero del Tesoro degli USA (le istituzioni del cosiddetto “Washington Consensus”), che hanno promosso negli ultimi trent’anni politiche economiche e concezioni che il premio Nobel Stiglitz chiama “fondamentaliste” dell’economia.

2. Tale indicazione è particolarmente chiara nella dichiarazione e programma d’azione del Vertice Mondiale sullo sviluppo sociale di Copenaghen del 1995.

3. Per esempio, le istituzioni totali, come gli ospedali psichiatrici, gli orfanotrofi o i cronicari, escludono e custodiscono, invece di rispondere ai bisogni delle persone. I sistemi sanitari di tipo privatistico escludono quelli che non possono pagare i servizi. E così via.

4. E’ certo che l’idea di “sviluppo” è stata spesso usata per giustificare atti politico-militari che vanno a tutto vantaggio dei paesi e dei gruppi più forti, ma sarebbe difficile abbandonare questo concetto, come suggeriscono gli autori che propongono la “decrescita”, visto che esso è ormai usato (male) da tutti.

5. La letteratura sui bisogni somiglia a quella sullo sviluppo: se ne parla, si valutano, si classificano, si criticano, ma non si dice cosa siano.

6. La neurobiologia ha identificato oltre 40 neurotrasmettitori che corrispondono a specifici sentimenti. E’ nota, ad esempio, la corrispondenza tra le endorfine e i sentimenti di piacere.

7. Le élite usano da sempre per questo scopo la propaganda, la pubblicità, le manipolazioni ideologiche ed altri mezzi che promettono soddisfazioni e sicurezza a tutti ed orientano gli scontenti verso capri espiatori (persone o oggetti da odiare al posto dei reali responsabili di frustrazioni e disagi).

8. I bisogni sono sentimenti confusi, stimoli passionali che, da soli, mancano degli strumenti per identificare cosa li può soddisfare. Solo nei movimenti istintivi iscritti nel patrimonio genetico, come il riflesso di suzione, i bisogni sono sufficienti a mettere in moto risposte appropriate.

9. Questa capacità è legata all’enorme sviluppo del sistema nervoso e specialmente alla capacità dei neuroni cerebrali di stabilire un gran numero di collegamenti tra loro. Si calcola che il cervello umano dispone di circa cento miliardi di neuroni e che ognuno di essi può stabilire circa diecimila collegamenti con gli altri. Man mano che la razionalità umana diveniva più complessa e raffinata aumentava il volume del cervello, che è passato dai circa 700 centimetri cubici dell’homo habilis di circa due milioni d’anni fa ai circa 1.400 dell’homo sapiens comparso circa duecentomila anni fa.

10. Vedere l’articolo di Carlo Panico (2008), ‘La razionalità nella letteratura economica’, in AA. VV. La nozione di razionalità nella letteratura economica. Scritti in onore di Michele Scudiero. Napoli: Jovene, pp. 1573-1595.

11. Il pensiero scientifico corrente più che al rigore, punta all’obbiettività. Ma questa si basa sull’idea, poco rigorosa, che possano esistere verità assolute e superiori, indipendenti dall’interazione tra soggettività, natura e società. Così si finisce per occultare la responsabilità etica e politica delle scelte individuali dietro alla presunta oggettività di verità assolute. Quest’occultamento affligge ancora oggi le scienze, molte delle quali rifiutano la dipendenza dalle scelte umane, che pure le hanno originate e le guidano. Le scienze economiche pretendono di essere obiettive. Ma poiché riconoscono l’importanza addirittura fondante della soggettività, cercano di basarla su analisi scientifiche oggettive. E’ una sfida impossibile che genera teorie inadeguate. Ad esempio, la neuroeconomics sogna di poter descrivere le scelte soggettive in termini di fenomeni chimici, elettrici e metabolici del sistema nervoso. La rivista The Economist ha dedicato, nel suo numero di luglio 2008, un articolo a questi sforzi “scientifici”, riportando anche, però, l’opinione di studiosi che notano la confusione, nell’approccio neuroeconomico, tra la descrizione di meccanismi e i prodotti di questi. Non si può spiegare, infatti, una scelta soggettiva, quale ad esempio quella di una relazione amorosa o di una creazione artistica, descrivendo il funzionamento chimico ed elettrico del sistema nervoso, che pure, nella scelta, ha avuto la sua parte.

12. Vedere Nota n. 9.

13. La dimensione solidarista ha dominato nelle società umane anteriori a quelle agricole, che sono state attive per circa due milioni d’anni. Queste società erano caratterizzate da un solidarismo originario, guidato dai patrimoni genetici degli individui, spinti a vivere insieme e a proteggersi reciprocamente perché ciò era obiettivamente vantaggioso rispetto alla vita isolata. Su questo solidarismo funzionale (comune alle società animali) s’è sovrapposto un solidarismo umano, cioè ricercato coscientemente, man mano che gli apparecchi psichici degli umani si organizzavano e imparavano a parlare, pensare e progettare. Con le società agricole complesse, che si diffusero circa undicimila anni fa, la dimensione solidarista è stata progressivamente sottomessa e dominata dalla cultura aristocratica e autoritaria.

14. Sono in atto processi di fortissima concentrazione di poteri e risorse in poche mani ed aumenta, corrispondentemente, il numero delle persone che, pur occupando posti di responsabilità, si sentono emarginate o escluse. Ciò tende a far crescere il numero degli attori critici. Per avere un’idea delle tendenze alla concentrazione di potere e ricchezza basti pensare che nel 1998 le 225 persone più ricche del mondo, secondo la rivista Forbes, guadagnavano circa 1.015 miliardi di dollari, che equivaleva al guadagno dei circa 2,5 miliardi di persone più povere. Dieci anni dopo, bastano meno delle 60 persone più ricche per guadagnare quanto i 2,5 miliardi delle più povere.

Universitas Forum, Vol. 1, No. 1, December 2008





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